L’estate si sta contendendo gli ultimi scampoli di dominio su questa porzione di Calabria, e lo fa… a colpi di vento. Un vento a raffiche, impetuoso, sferzante, che accompagna quasi per intero le giornate.
Con in sottofondo il rombare quasi costante del vento, ci congediamo da questa rubrica con un’ultima parola, che segna ormai il punto di demarcazione tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno.
Scotuliàre… di certo non troveremo mai segnalata in nessun vocabolario della lingua italiana questa parola.
Scotuliare infatti è vocabolo del calabrese.
Da quando siamo qui, abbiamo appreso, e siamo tuttora in corso di apprendimento, di parole che in se stesse raccolgono un’intera storia e un concentrato di senso.
Per esempio, il verbo ricògliersi: verbo prediletto e specifico per indicare il rientrare a casa. Ma ricogliersi indica molto più, perché di per sé significa: raccogliersi. Ecco dunque che con questo solo verbo si ha già la precisa percezione che il rientrare nella propria casa sia il raccogliersi nell’intimità degli affetti più cari; raccogliersi dalle dispersioni e dalle fatiche lavorative che hanno costretto a uscire fuori, magari anche lontano…
Un altro verbo molto significativo è spagnarsi, usato quando si prova un grosso spavento: “mi spagno, mi sono spagnato”, equivale a dire: provo, ho provato un forte spavento. E qui è la storia che parla: l’incontro con l’altro, con il diverso, rappresentato da un popolo o da un singolo, può lasciare un solco, un segno, una traccia; vestigia. Nel libro biblico del Cantico dei Cantici troviamo che l’amato lascia nel cuore e sul braccio dell’amata un sigillo, come a dire una firma. A volte, però, può drammaticamente succedere che il solco lasciato abbia i contorni dolenti di una vera e propria cicatrice: è il caso del verbo in questione, che testimonia ancora oggi le ferite prodotte dalla venuta di un popolo dominatore.
E proprio a partire da questo verbo qualificato storicamente, spagnarsi, ci potremmo domandare: «Quale segno desidero io lasciare nell’altro, qualunque volto esso abbia? un segno di vita, un solco di luce, una “firma”, o invece una cicatrice?». La risposta dipende da me. Solo da me.
Ma torniamo alla parola scotuliàre; per la precisione si tratta di un verbo e significa: scuotere.
È parola a noi assai cara, perché ad essa è legata una storia, un pezzetto della nostra storia qui, che passiamo a raccontare.
Arrivavamo da regioni lontane e distanti, non solo geograficamente. Portavamo con noi un bagaglio fatto di tante cose, oltre che di valigie, mobilio e pacchi a dire basta; portavamo il nostro bagaglio di cultura, cioè di cose apprese e dimenticate, ma comunque incidenti nel nostro modo di pensare, sentire, discernere; scampoli di lingue straniere ancora vive in noi; reminiscenze lontane di latino, consecutio temporum e qualche residuo aoristo irregolare… e poi, ciò che per ognuna era stato il suo campo di ricerca, di studio, di interesse… ognuna col suo percorso singolare e originale… lo studio lascia come solco la sana curiosità di conoscere, sapere, interrogarsi, apprendere sempre…
Giungiamo finalmente a destinazione: la casa Madonna del Buon Consiglio ci attendeva, tutta avvolta dalle impalcature fino al tetto, e col selciato sterrato…. ancora qualche ciuffo di rovo resisteva alla pulizia della ruspa. E poi le mucche e i cavalli, a pascolare e a brucare l’erba fin sotto la finestra del nostro refettorio… una cosa davvero unica per noi!
Fuori, nell’angolo del perimetro del cortile, un albero mai visto prima: un pistacchio!
Noi, con tutto il nostro sapere, non avevamo mai visto prima un pistacchio. Fino a quel momento “pistacchio” evocava per noi, oltre che un gusto del gelato, quei frutti secchi che rallegrano i pasti del tempo di Natale. Ma non ci eravamo nemmeno mai chieste che razza di pianta potesse produrre frutti simili.
Un albero di ormai molti anni, rigoglioso nella chioma, i rami ritorti e resinosi, le foglie rotondeggianti, e stupendo nei frutti: a grappolo, di forma ovale, avvolti in un mallo che quando si avvicina a maturazione assume un colore arancio-rossiccio, molto allegro e molto elegante.
Un albero tutto a nostra disposizione! Una sovrabbondanza inattesa. Ci sembrò fin troppo semplice affrontarlo per raccoglierne i frutti. Ci armammo di piccoli rastrelli, coi quali prendemmo a strappare quanti più pistacchi possibili dall’albero. Con un certo piglio predace cercammo di raccoglierli proprio tutti. E poi, manualmente togliemmo ad uno ad uno il mallo esterno. A quel punto i pistacchi si presentavano esternamente tali quali noi li ricordavamo, dai famosi pasti natalizi.
Ma quando cominciammo ad aprirli, un’amara sorpresa: erano quasi tutti vuoti! Solo pochissimi ci offrirono il loro frutto. Restammo un po’ così, tra l’interdetto, il deluso e il frustrato: dopo tanta fatica, tanta cura, tanta spesa di tempo, proprio non riuscivamo a capire come mai quell’esito così magro. Allora, anche per darci un certo contentino, cominciammo a dare credito ad un pensiero: probabilmente l’albero è malato. E cercammo di convincerci della cosa. A tal punto che gli anni successivi lasciammo perdere il pistacchio ed evitammo accuratamente di procedere alla raccolta dei suoi frutti; tanto – ci dicevamo – ora lo sappiamo benissimo: sembrano buoni, invece sono vuoti.
Trascorsero diverse stagioni. Finché qualcuna di noi un giorno, raccogliendo da terra un pistacchio caduto dall’albero, lo aprì e ne gustò il contenuto: pieno, verde, saporito. Che sorpresa! come poteva essere? che l’albero fosse nel frattempo guarito?
Decidemmo un giorno da dedicare alla raccolta. Un giorno di cielo terso e di sole caldo: una splendida giornata di settembre. Riprendemmo tutta la nostra strumentazione: una rete di quelle per la raccolta delle olive, secchi, bidoni e i famosi, indispensabili rastrelli, coi quali iniziammo a strappare, alla vecchia maniera, i frutti dall’albero. Nel bel mezzo della nostra impresa arrivò una nostra amica: vedendoci così determinate e animate nella spoliazione del pistacchio, intervenne con un consiglio. Quello di cui avevamo bisogno; ma non lo sapevamo. Ci disse: «Ma non è così che si raccolgono i pistacchi. Se li strappate dall’albero, rischiate di cogliere i frutti ancora acerbi. Dovete scotuliàre un poco i rami…. i frutti che così cadranno sono quelli effettivamente maturi». «Scotu che…?», ribattemmo noi; «Scotuliare, insomma dare una scossetta, ma non troppo vigorosa mi raccomando, una scossa giusta, così da far cadere i pistacchi maturi».
Quell’anno la raccolta fu abbondante. Addirittura riuscimmo ad organizzare un mercatino di beneficenza, dove tra i vari prodotti c’erano anche i famosi pistacchi, confezionati in sacchettini con tanto di etichetta.
Si può cadere facilmente nella convinzione che, per accostare il nuovo che la vita ci offre, occorra arrivarvi attrezzati: muniti come di uno “scafandro” mentale, fatto di esperienze pregresse, nozioni apprese, studi fatti, educazione assimilata, ecc.; e ritenere che, quanto più questo scafandro interiore e mentale è ricco e fornito, tanto più possiamo pensarci al riparo da rischi, delusioni, bidonate. Ma proprio questo scafandro si rivela poi, tante volte, pesante da portare e non solo: anche di ostacolo alla possibilità di rimanere aperti all’accoglienza del nuovo. Perché lo “scafandro” che ci portiamo dentro, prima o poi esigerà che il nuovo in cui la vita ci fa impattare, rientri nei suoi schemi, si lasci incasellare nel suo déjà vu, nelle categorie con cui ha l’abitudine di formulare giudizi sulle cose…
Il pistacchio ci ha insegnato che, se il nostro back ground è un dato di cui essere grati e sempre memori, è necessario però allenarsi a restare interiormente leggeri: sgombri – o quantomeno sanamente distanti – da tutte quelle sovrastrutture di giudizio, pensiero, modalità note e arcinote, con cui siamo abituati ad addomesticare il nuovo e a ridurlo a nostra misura.
C’è un frutto saporoso che l’incontro col nuovo desidera farci scoprire: è a partire da un di meno di conoscenza, dalla percezione serena di un vuoto di sapere, dal prendere atto della nostra i-gnoranza, che potremo gustarlo.
Avanzare nella vita non per accumulo di conoscenza, ma con la semplicità dei bambini, sapienti, loro sì, nel lasciarsi sorprendere, e nel riuscire a rallegrarsi di ogni piccola novità.
Ma il pistacchio ci ha insegnato anche altro…
L’istinto un po’ primitivo e sempre risorgente di poter strappare e portare a sé le cose, le persone, le relazioni, sotto sotto ci abita tutti.
Scotuliare, allora, ci ricorda quell’atteggiamento fatto di delicatezza, rispetto, gratuità, con cui si va all’altro, alle cose e anche a Dio senza pre–tendere, ma semplicemente pro–tendendo: noi stessi, presentando una mano tesa, un cuore aperto. E lasciando l’altro libero di rimanere se stesso.
Il figlio minore della parabola narrata dall’evangelista Luca aveva capito ben poco del cuore del padre, se a lui si rivolge con quel tono supponente e pretenzioso: «Padre, dammi!» (cf Lc 15, 12). Gli occorrerà un lungo cammino, fatto anche di cadute ed errori, per arrivare a rivolgersi a lui con un cuore diverso: «Padre, ho peccato…».
La preghiera, forma di relazione la più personale e intima, se fosse solo un chiedere, un esigere, un pretendere, si priverebbe del suo frutto più bello: incontrare l’Altro nella sua verità di amore gratuito. Ma anche le relazioni di amicizia seguono la stessa dinamica della preghiera; insomma, si muovono sui binari dello scotuliare delicato e discreto, anziché su quelli dello strappare, del prendere, dell’impossessarsi.
L’incontro, che sia col Dio «più intimo a noi di noi stessi», o con l’altro che sta fuori di noi e bussa alla soglia della nostra vita per domandare considerazione, avviene sempre come un dono che supera ogni nostro merito, sforzo, impegno. Un dono gratuito e saporoso. Un dono non scontato.
Come quei pistacchi, che solo dopo anni abbiamo imparato a gustare.
Commenti(12)
p. Giuseppe Rombaldoni dice
22 Settembre 2017 alle 19:46Splendido racconto è, come sempre narrato con grande maestria. Brave
Eugenio Nastasi dice
22 Settembre 2017 alle 20:01A metà strada tra il narrativo e il dato di glottologia arriva dal monastero rossanese delle Agostiniane questa bella riflessione su alcuni vocaboli dialettali calabresi, che al di là del significato, sono tutti verbi. E non è cosa di poco conto dacché il verbo si sa esprime l’azione, qualunque sia l’agente. Ed è straordinario giungere in fondo allo scritto e scoprire l’arguzia fine, femminile e monacale, con cui le nostre hanno cucito gergo e teologia, pronuncia e analogia fino a farci assaporare un frutto maturo di sapore e di senso.
Silvana Simeri dice
22 Settembre 2017 alle 20:19La grandezza che la vita ci insegna è là semplicità di affrontare le esperienze quotidiane spogliandole della loro apparenza sbuffante ed apprezzandole nella loro fluente essenza…
Giovanni fortino dice
22 Settembre 2017 alle 20:46Una meraviglia. Grazie della vostra presenza anche on line
Rossella dice
22 Settembre 2017 alle 21:53….grazie!
Arrivate al cuore riuscendo a…
“scotuliarlo”!!!
Immacolata Maringola dice
23 Settembre 2017 alle 0:19Semplicemente grazie di cuore, per queste perle di teologia legate a parole ed azioni quotidiane.
Cinzia dice
23 Settembre 2017 alle 6:26Dal piccolo e dall’apparentemente banale un insegnamento grande, per la mente ed il cuore. E poi si sente la “passione”per questa terra di Calabria che vi sta sempre piu’ appartenendo, e che voi abitate, non strappando. Grazie di questa luce!
P.S. L’avevo detto che e’ un albero simpatico…
Carlo dice
23 Settembre 2017 alle 8:18Brave Sorelle, avete creato una splendida “isola” di serenità per i nostri cuori. Grazie. Ciao
Giuseppina dice
23 Settembre 2017 alle 13:00Grazie per quel buon profumo che si diffonde dal piccolo monastero in compagnia di quel frutto altrettanto odoroso e gustoso. Vero profumo che si innalza e si diffonde. Grazie
Fabio S. dice
23 Settembre 2017 alle 16:09Basterebbe non aspettarsi niente dalle situazioni della vita per apprezzare i doni che, di volta in volta, essa ci riserva
Franca dice
23 Settembre 2017 alle 22:46“Avanzare nella vita non per accumulo di conoscenza…………………….. e nel riuscire a rallegrarsi di ogni piccola novità “. Avendo lavorato fra i bambini per 40 anni ,lascio entrare, a porte spalancate nel mio cuore,chi fa tale affermazione. Affascinata dal racconto di una storia vera, intensa,gioiosa.Grazie.
francesco dice
29 Settembre 2017 alle 17:27Che bellissimo dono, che profonda e semplice ed autentica meditazione ci avete offerto, grazie infinite francesco