Quando pensiamo al punto massimo di felicità e di pace che desidereremmo umanamente raggiungere, quale immagine ci viene in mente?
Forse lì per lì, a caldo, potremmo pensare a qualcosa che abbia a che fare col benessere. Non siamo in pochi a pensare che saremmo davvero felici nel momento in cui fossimo beatamente in pace, soli, senza nessuno «a darci fastidio». Soli in cima a una montagna. Oppure accarezzati dalle onde di una piscina con idromassaggio. Senza nessun altro attorno.
A detta degli architetti che al riguardo hanno dalla loro l’esperienza, la tendenza del momento, quando si va a progettare una casa, è di dare risalto, di mettere cura e importanza, tra tutti gli ambienti possibili …alla sala da bagno: dove non può mancare la vasca munita di comforts multifunzioni. Proprio così. A pensarci bene, la cosa fa tristezza: una casa nasce come spazio di incontro, di condivisione, di dialogo e di ascolto; dove ci si mescola, si dibatte, si ride e si piange insieme…
Fare del cuore di una casa la sala da bagno significa che su tutto prevale la cura di sé, l’esagerata dedizione al proprio wellness.
Un invito alla gioia coniugato al plurale
La Liturgia dell’Avvento giunge a far risuonare le note squillanti dal ritmo “andante con brio” dell’antifona di ingresso della Terza domenica: Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora: rallegratevi: il Signore è vicino! (Fil 4,4). E già ci facciamo attenti, ci ridestiamo dal torpore del “bagnomaria” della vasca: come mai i verbi sono tutti al plurale?
Sì, se si scorre per intero la Lettera ai Filippesi (e vale la pena farlo, se ne resta conquistati), si nota che Paolo sembra riesca a parlare solo tenendo presenti davanti a sé una pluralità di volti, di storie, di fratelli e sorelle. Si tratta della comunità cristiana di Filippi, città importante della Macedonia e colonia romana; fra loro, possiamo immaginarlo, c’erano greci per lingua e cultura, oriundi romani e ebrei di lingua greca: quindi era davvero una comunità molto variegata al suo interno. Proprio questa comunità così caratterizzata aveva dato prova di generosità e perseveranza nell’annuncio del Vangelo, e Paolo lo ripete più volte lungo tutta la lettera: i Filippesi hanno cooperato alla diffusione del Vangelo (Fil 1,12); sono esortati a tenere alta la Parola di vita (Fil 2,16); fra loro vi sono alcuni che hanno combattuto per il Vangelo (Fil 4,3).
La comunione vissuta rende visibile il Vangelo
Ma c’è un versetto che risalta in modo particolare, lì dove Paolo dice, accorato: «Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo, perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo» (Fil 1,27). Il vangelo, insomma, è una parola non solo da annunciare, ma da incarnare. E il modo più bello, più pieno di incarnare il Vangelo è impastarsi insieme nella comunione dei cuori.
I Filippesi, intende dire Paolo, diventano loro stessi vangelo con la loro vita di comunione. In altre parole: la comunione, l’unità, fanno vedere al vivo il vangelo in tutta la sua luminosissima incandescenza.
Poco più avanti, Paolo incalza: «Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi» (Fil 2, 2). Sono molti i rimandi alla gioia in questa Lettera: all’inizio, Paolo confessa di provare gioia quando prega per i Filippesi; per due volte esorta i Filippesi a essere sempre lieti nel Signore; ma qui potremmo dire che Paolo addirittura prega i Filippesi perché siano loro a colmarlo di gioia con la loro vita tesa a costruire comunione, unità (se Paolo esprime questa preghiera, evidentemente è perché sa che la comunità di Filippi è minacciata al suo interno da divisioni).
Nel nostro “DNA spirituale” è scritto: comunione
Comunione, unità: ne avvertiamo il fascino, la bellezza, più spesso la nostalgia; altre volte ci sembrano cose irrealizzabili, ingenue utopie… Eppure… solo interagendo con gli altri diventiamo veramente umani; è attraverso l’incontro, talvolta lo scontro, altre volte l’impatto con la diversità dell’altro che a nostra volta posso conoscerci davvero. Ogni vero incontro ci lascia un segno, piccolo o grande che sia. Ci dischiude la verità di ciò che siamo in profondità. Nel bene e nel male. Ci offre l’opportunità di andare oltre i confini striminziti del nostro io. Ci apre gli occhi sulla nostra capacità di fare cose nuove e diverse; soprattutto, ci apre gli occhi sulla nostra capacità di amare. Cioè di accogliere l’altro nella sua diversità.
Nonostante tante volte ci appaia come impresa ardua e al limite dell’irrealizzabilità, la comunione continua ad esercitare su di noi un’attrattiva fortissima. Questo perché la portiamo scritta dentro di noi, nel nostro “DNA spirituale”, potremmo dire: siamo il frutto dell’amore che circola in seno a Dio stesso; le nostre origini sono comunione, perché proveniamo da Dio Trinità, Dio che è per essenza comunione, unità fra Persone diverse.
Noi purtroppo dimentichiamo facilmente che proprio questa è la nostra struttura interiore: il peccato ha comportato una specie di “amnesia” nei confronti di questa nostra “anatomia spirituale”. E così finiamo per dar credito alla voce del nostro egocentrismo, con tutto il corredo di pretese e bisogni che ne segue.
Il cuore di Dio si rallegra dell’unità
La vita con i suoi incontri ci offre la stupenda opportunità di ritrovare il gusto della comunione. A poco a poco impariamo che vivere le relazioni è davvero come dedicarsi ad un minuzioso lavoro di tessitura: occorre prestare attenzione ad ogni filo; alimentare l’intreccio di calore e affetto; rispettare la delicatezza dell’ordito, evitando soffocanti invadenze ma anche eccessive distanze; ricominciare ogni volta che ci si accorge che il filo si è allentato o spezzato; infine, dare credito al tempo, che saprà disvelare la meraviglia del disegno complessivo, passato attraverso tanti punti, sottopunti e… contrappunti.
Quando Agostino legge nella Genesi il racconto della creazione, si sofferma a contemplare l’uomo così come è uscito dalle mani di Dio, e nota in lui due caratteri particolari: la sua natura portata alla socialità, e il bene in lui congenito dell’amicizia; e aggiunge: «da un solo individuo Dio ha dato origine al genere umano, per insegnare agli uomini quanto gli è gradita l’unità dei molti» (La Città di Dio, 12, 22). Sì: la comunione, così imperfetta e fragile, che prende corpo tra persone segnate dalle loro diversità e dai loro limiti, è quanto mai gradita a Dio; rallegra il suo cuore.
Questa domenica cosiddetta «della gioia» inizia con l’invito per noi alla gioia, e raggiunge il suo culmine spingendosi addirittura a intuire qualcosa della gioia che si muove nel cuore di Dio…. a motivo del nostro fonderci in comunione. Questa comunione è un bene preziosissimo; è il Vangelo reso lettera viva, carne e sangue. È la buona notizia che il mondo attende di ricevere, proprio da noi cristiani.
In che modo Agostino suggerisce di vivere la comunione. Uno sguardo alla sua Regola
Nella sua Regola, Agostino organizza la vita dei monaci attorno a due semplici direttrici, che possono essere utili indicatori per ogni cristiano che intenda vivere sul serio la propria vocazione. La prima direttrice è l’attenzione all’interiorità, al cuore: si prega nel cuore; si pensa col cuore; si tocca Dio col cuore. La seconda direttrice è proprio la comunione; e qui troviamo alcune perle di inestimabile valore, tra gli insegnamenti di Agostino. Anzitutto la dedizione per il bene comune: da anteporre a quello personale, da curare con maggior sollecitudine ed entusiasmo che se si trattasse di interessi “propri”. Il pensiero si aggancia di nuovo alla lettera ai Filippesi. C’è un passaggio molto forte, lì dove Paolo raccomanda: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2, 4), e poi constata, non senza un pizzico di amarezza: «tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2, 21). Che tristezza, quando la vita di una comunità, sia una famiglia, una coppia di sposi o una fraternità religiosa o ecclesiale in senso lato, anziché essere il fiorire di un’entità nuova, data dall’interagire degli uni con gli altri, dalla sinergia e dall’interscambio di bene affetto talenti, degenera a somma di individualità, giustapposizione di singolarità, ciascuna col suo spazio e con le sue esigenze.
Agostino ha ben presente questo richiamo di Paolo, ecco perché nella sua Regola raccomanda: «Nessuno faccia le cose per sé, ma lavorate sempre per il bene di tutta la comunità; anzi, quanto più l’interesse è comune, tanto più metteteci entusiasmo e sollecitudine. “L’amore, dice la Scrittura, non va in cerca del proprio interesse”, e questo significa che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni».
È un modo assolutamente capovolto di impostare la comunione rispetto ai criteri dell’egocentrismo: si tratta di abbandonare la preoccupazione per la propria preservazione; di uscire fuori dalla cappa di vetro in cui il nostro egoismo ci tiene prigionieri, schiavi della paura per noi stessi e dell’intangibilità dei nostri spazi vitali. Uscire fuori, nello spazio aperto della comunione, comporta vivere l’ascesi del “diventare noi”, prendendo le distanze dal proprio io, apprendere a poco a poco a sciogliersi nell’insieme, non più preoccupati di sé. Bellissimo. Agostino aveva capito, lui che per tanti, lunghi anni era stato malato di egocentrismo ed egoismo, era arrivato finalmente a capire che questi sono elisir velenosi, che ci sottraggono vita, mentre la bevanda fresca e leggermente sparkling della comunione trasmette vita, vita vera.
Ma perché questo sia possibile, nella stessa Regola Agostino premette una raccomandazione di importanza fondamentale: «Difendete dunque ad ogni costo l’unanimità e la concordia, e rendete reciprocamente in voi onore a Dio del quale siete diventati dimora» (Regola, 9).
Difendete ad ogni costo: perché la comunione è un bene prezioso ma tanto fragile, esposto a venire attaccato in tanti modi; unanimità e concordia non significa che tutti dobbiamo avere le stesse vedute, ma significa saper integrare le diversità e perfino il dissenso; imparare a dialogare accostando la propria parola, le proprie vedute, a quelle degli altri, senza battagliare per aggiudicarsi l’ultima parola, ma spingersi a dire fino alla penultima parola, ciò che è più importante e faticoso. Concordia si può intendere così: non avere un cuore doppio, saper mettere il proprio cuore con verità accanto a quello dei fratelli, delle sorelle.
E poi, stupendo: «Rendete reciprocamente in voi onore a Dio del quale siete diventati dimora»: il nostro modo di toccare Dio è attraverso la carne viva del fratello. Il nostro modo di rendere culto a Dio è la carità che si esprime verso i fratelli, le sorelle. Quanta dignità nelle persone. Quanto reverente stupore nell’accostarle…
«Rendete reciprocamente in voi onore a Dio del quale siete diventati dimora»: potrebbe essere, questo, tema e punto di partenza di tutta una spiritualità coniugale, ad esempio. Quanta delicata tenerezza suggerisce nel tratto, nei gesti e nelle parole, nel dire e nel non dire…
Quando la comunione entra in crisi
Se vivere la comunione resta davanti a noi come meta attraente e impegnativa, dobbiamo anche riconoscere che ci sarà capitato probabilmente di scoprirne l’aspetto, doloroso, delle crisi, dei conflitti, e magari anche di qualcuno che ha preferito ad un certo punto allontanarsi, separarsi da noi. È bello avere lacrime, e non giudizi, per queste evenienze affatto rare. Avere lacrime, arrivare a piangere il vuoto, la mancanza; e arrivare anche a metterci in discussione, domandandoci se per caso non abbiamo contribuito col nostro modo di fare a che qualcuno ad un certo punto abbia preferito andare altrove; ben diverso dall’atteggiamento di chi si sente alleggerito per essersi finalmente “tolto di mezzo” un elemento di disturbo!
La carità resta il grande criterio con cui vivere e continuare ostinatamente a costruire comunione.
Il presepe, immagine plastica di comunione
Nel Presepe contempliamo un’enorme varietà di persone che si mettono in cammino verso la grotta di Betlemme: c’è spazio per tutti: per il bambino e per l’anziano, per il giovane e per il vecchio, per chi lavora e per le donne di casa; per i sognatori e per i pastori; per i saggi e sapienti e per gli indotti e i semplici. Immagine plastica, il nostro presepe, della comunione. Tutti sono orientati verso un punto catalizzatore: il Bambino Gesù. L’umile Gesù: svuotato di sé, della sua divinità, per rivestire gli umili panni della nostra umanità.
Sia così anche per noi: rivolti al Signore Gesù, svuotiamoci di noi stessi e con cuore povero apriamoci al grande bene della comunione. I nostri ambienti di vita ne riceveranno un surplus di calore e colore.
Commenti(2)
Anita dice
15 Dicembre 2019 alle 16:51Bellissima questa riflessione!! Grazie sorelle siete uniche!
Giuseppe dice
15 Dicembre 2019 alle 19:30“Ricordati, figlio, con chi hai da fare hai da dire! Siamo diversi l’uno dall’altro ed abbiamo diverso modo di pensare e di agire.” Così mio padre mi educava, durante l’adolescenza, al rispetto ed alla correttezza dei rapporti con chi avevo accanto; non sempre è stato facile.
Crescendo e leggendo di tanto in tanto la vita dei santi ho potuto constatare come anche per loro sia stato tutt’altro che facile incarnare “Il vangelo della comunione”, basta pensare alle difficoltà di Santa Teresa di Gesù Bambino con le sue consorelle. San Giovanni Berchmans, poi, non ne fa mistero: “Vita communis, mea maxima poenitentia! (la vita comune è la mia più grande penitenza)”. Però sia Teresa che Giovanni si sono fatti santi nelle loro comunità!
E nella Sacra Famiglia c’erano mai state incomprensioni? Ho provato a rinfrescarmi la memoria con il Vangelo di San Luca: “ I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole. 51Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”
Delle tante riflessioni che si possono fare su questo passo di San Luca, ne voglio condividere una di Don Luigi Pozzoli: “ A questo vangelo non chiederò consigli spiccioli per la vita della mia famiglia, chiederò invece idee forza per un’autentica esistenza cristiana: le cose di Dio al centro della vita; non vantare alcun diritto di possesso sui figli; conservare nel cuore con fiducia ciò che oggi non si capisce, un giorno la risposta verrà e sarà luce; crescere al ritmo lento del dialogo e del limite; saper unire Nazaret e Gerusalemme, la città di Dio e la mia casa, perché il Padre bussa alla porta della mia vita innanzitutto con il volto di ogni persona che vive accanto a me.”
Care sorelle, mi pare che l’invito che avete formulato sia proprio il cuore del carisma agostiniano “l’unità nella diversità”, è un anelito universale: in Nepal due persone incontrandosi portano le mani congiunte al petto, abbassano lievemente la testa e dicono “Namastè” che significa “Rendo onore al luogo dove risiede l’armonia dell’intero universo, se tu sei in quel luogo in te ed io sono in quel luogo in me, tu ed io siamo una cosa sola!”
Grazie, carissime.