Modo d’uso: il presente articolo è pensato su misura per l’animo femminile. Se poi qualche animo virile vorrà accostarsi a questa lettura, sappia che non sussistono particolari controindicazioni. In ogni caso ci auguriamo che, chiunque lo accosterà, possa trarne i benefici desiderati.
Fiumi d’inchiostro continuano ad essere versati sulla questione femminile, sul ruolo e la dignità della donna: si parla di progresso, di diritti, di pari opportunità, di emancipazione. È indubbio quanto sia importante il contributo femminile nella cultura, nell’economia, nella politica. Non pensiamo però solo al ruolo della donna nelle grandi ed altisonanti occasioni. Pensiamola (e pensiamoci) mentre affronta le sfide di ogni giorno, mentre è impegnata su molteplici fronti che, proprio perché donna, dovrebbe vivere nella ricerca continua di armonia ed equilibrio. Diciamo dovrebbe perché la disposizione naturale ha sempre bisogno di essere promossa e aiutata a crescere.
È bello incontrare donne che, spesso assorbite da tanti impegni o avviate a responsabilità particolarmente gravose, non hanno abdicato ad essere regine della propria casa, ma hanno saputo fare sintesi, scoprendo dentro il loro cuore potenzialità di vita nascosta, capaci di colorare il grigiore o di sfumare le tinte forti di tanti passaggi stretti della vita.
La donna che sa coltivare la propria anima diffonde attorno a sé cerchi concentrici di pace e diviene terreno veramente fecondo per il bene di chi le sta accanto.
Ci sono virtù che non vanno mai fuori moda; c’è un fascino che non si ottiene con due tocchi di mascara e un po’ di fondotinta ma affinando sensibilità e ascolto; c’è un ampio scarto tra l’essere provocanti e il saper provocare nell’altro il risveglio di alti ideali, di nobili sentimenti, di buoni pensieri, richiamandolo ad una profondità che offra solidità alle fondamenta della casa e dei rapporti che si vivono.
Quando si affievolisce la freschezza degli anni giovanili, quando compaiono le prime rughe e si comincia a cercare tra gli scaffali del supermercato il primo shampoo colorante, si profila di pari passo una riflessione più acuta sul senso della propria vita e rispunta, forse più forte di prima, la domanda: chi sono e per che cosa sono fatta?
Si apre un nuovo scenario in cui urge ritrovare l’orizzonte di senso e abbracciare quel nucleo di sé che è la chiave della perenne bellezza di ogni donna e della sua gioia più vera: essere per l’altro, corpo e anima, grembo di vita; accettando il prezzo della generatività.
Edith Stein scriveva: «L’anima della donna dev’essere ampia e aperta a tutti gli esseri umani; dev’essere piena di pace, in modo che nessuna piccola fiamma venga estinta da venti impetuosi; calda di modo da non intorpidire i germogli più fragili… vuota di sé, perché la vita esterna possa trovarvi spazio; padrona di sé e anche del suo corpo, di modo che tutta la persona sia prontamente disponibile a ogni chiamata» (da Fondamenti dell’educazione della donna).
È singolare come questa donna, ebrea, filosofa, cristiana, carmelitana, martire, abbia vissuto la vocazione originaria femminile di essere madre per molte anime. C’è un semplicissimo particolare dell’ultimo tratto della sua vita che racchiude in sé quanto lei, anni addietro, aveva scritto sulla donna; si tratta di quando era prigioniera ad Auschwitz e prendeva con sé e consolava i bambini rimasti soli, perché le loro madri avevano perso il senno a causa delle sofferenze vissute nel campo di concentramento. È attenzione femminile, donazione ininterrotta, maternità sdoganata da ogni angusto e pericoloso confine di preoccupazione di sé e per sé.
I figli attenti sanno riconoscere i livelli di maternità delle proprie madri. Possono non accorgersene subito, possono anche accantonare per lunghi anni la portata del bene ricevuto, degli esempi edificanti, ma dentro di loro e spesso a loro insaputa, rimangono indelebilmente impresse le tracce dell’amore materno, quello maturo, che non solo sa mettere la merenda nello zaino dei figli (e non è comunque poco!), ma trasmettere loro le ragioni del vivere e del credere, quelle che irrobustiscono la persona e non la lasciano crogiolare nel solco di eterni infantilismi.
Il ritratto che Sant’Agostino dà di sua madre ci rivela l’anima di Monica.
In lei ritroviamo i connotati dell’anima femminile stupendamente delineati nel brano della Stein appena citato: ampia, piena di pace, calda, vuota di sé, padrona di sé. Monica è cresciuta insieme al figlio. Si è lasciata guidare di tappa in tappa dalla mano di Dio nell’esercizio della sua maternità. Aveva quella marcia in più che si chiama fede; e la fede ha fatto fiorire in lei i germogli dell’anima femminile.
Le commoventi pagine che Agostino scrive su di lei non sono dettate da emotività eccedente ma sono il riconoscimento dell’opera di Dio nel cuore di una madre e degli effetti che essa può produrre nella vita dei figli. Riferendosi a Monica, Agostino si serve di un verbo che racchiude in sé tutti quelli che utilizza per descrivere sua madre: partorire.
«Non tralascerò i pensieri che partorisce la mia anima al ricordo di quella serva, che mi partorì con la carne a questa vita temporale e col cuore alla vita eterna»; Monica «aveva allevato i suoi figli partorendoli tante volte quante li vedeva allontanarsi da te». Partorire evoca insieme la gioia e il dolore; è un verbo pasquale, usato da Gesù durante l’Ultima cena per indicare il passaggio morte-resurrezione. Nella maternità il dolore va messo in conto, accettato, assunto, altrimenti non si è madri. Monica ha conosciuto l’angoscia di vedere un figlio smarrirsi in luoghi di non-senso, dietro a idee che avevano la consistenza del fumo.
Quante madri attraversano la stessa sofferenza!
Monica ha conosciuto le lacrime amare dell’abbandono, quando Agostino partì a sua insaputa alla volta di Roma. Il figlio lo ricorda così: «Mentii a mia madre, a quella madre, eppure scampai, perché la tua misericordia mi perdonò anche questa colpa, mi salvò dalle acque del mare malgrado le orrende brutture di cui traboccavo, per condurmi all’acqua della tua grazia, le cui abluzioni avrebbero asciugato i fiumi delle lacrime di cui gli occhi di mia madre volti a te rigavano per me quotidianamente la terra sotto il suo volto» (Conf. 5,8,15).
Monica non ha coperto, taciuto, ovattato gli errori del figlio, eppure non è mai venuta meno nella perseveranza di stargli accanto.
Da una persuasione fatta di parole e richiami, da una preghiera forse ancora troppo ingolfata nell’ansia di legittime preoccupazioni materne, Monica ha camminato verso la pace che nasce dal rimettere tutto, proprio tutto, nelle mani di Dio, compresa l’attesa logorante e il desiderio di vedere la stessa pace nello sguardo del figlio. «Amava la mia presenza al suo fianco come tutte le madri, ma molto più di molte madri, – scrive Agostino – e non immaginava quante gioie invece le avresti procurato con la mia assenza. Non lo immaginava, e perciò piangeva e gemeva, e i suoi tormenti rivelavano l’eredità di Eva in lei, che cercava con lamenti quanto con lamenti aveva partorito. Tuttavia, riprese a implorarti per me, tornando alla sua solita vita, mentre io veleggiavo alla volta di Roma» (Conf. 5,8,15).
Quando Monica raggiunge il figlio a Milano in lei sembra maturata la certezza dell’esaudimento di una preghiera custodita per lungo tempo nel cuore: «Già mi aveva raggiunto mia madre, che, forte della sua pietà, m’inseguì per terra e per mare, traendo sicurezza da te in ogni pericolo. […] Mi trovò in grave pericolo. Non speravo più di scoprire la verità. Tuttavia, quando la informai che, pur senza essere cattolico cristiano, non ero più manicheo, non sobbalzò di gioia come alla notizia di un avvenimento imprevisto: da tempo era tranquilla per questa parte della mia sventura. […] Nessuna esultanza scomposta commosse dunque il suo cuore alla notizia che quanto ti chiedeva ogni giorno, fra le lacrime, di compiere, si era compiuto: se non avevo ancora colto la verità, ero però stato ormai tolto dalla menzogna. Fermamente sicura, anzi, che avresti concesso anche il resto, poiché tutto le avevi promesso, mi rispose con assoluta pacatezza e il cuore pieno di fiducia: “Credo in Cristo che prima di migrare da questo mondo ti avrò veduto cattolico convinto”» (Conf. 6,1,1).
Attendere, sperare, pregare, desiderare sono tutte coniugazioni del verbo partorire. Il calore dell’anima di Monica ha riscaldato e illuminato quella di Agostino.
C’è un evento che segna l’apice del rapporto madre-figlio: l’estasi di Ostia è stata certamente un’esperienza forte di comunione, avvenuta proprio mentre i due conversavano con grande dolcezza su quale sarebbe stata la vita eterna dei santi. La prospettiva di una madre non è la terra, è il Cielo: cresce figli per il Cielo. E a partire da esso insegna loro a vivere sulla terra, collabora con Dio per renderli abili al Cielo. Questo è stupendo, perché vuol dire far cogliere ciò che in definitiva rimane della vita, significa insegnare a puntare alto, senza compromessi e mezze misure.
Infine, lasciare è un’altra coniugazione del verbo partorire. Monica ha saputo riconoscere l’ora del compimento della sua missione e della sua vocazione: «Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c’era che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?» (Conf. 9,10,26).
Monica non si è attribuita nessun merito. Vuota di sé, ha seguito i primi passi del figlio lungo il cammino della santità. In lei tante donne, spose e madri, ritrovano i loro stessi “dolori del parto”.
Possano trovare in lei anche una buona amica che susciti in loro il desiderio e la forza di quella marcia in più che fa la differenza.
Commenti(5)
Giulio dice
27 Agosto 2017 alle 14:15Anche mia madre, un giorno, mi confido’ di avere ormai esaurito il suo viaggio terreno. Era già pronta per Cielo. Dopo una santa Comunione, mi disse di essere stata in Paradiso. Le chiesi di descrivermelo. “Non è possibile – si scuso’ – perché non può essere descritto”. Una cosa le era rimasta chiara: una infinita’ di anime, che, gioiose si muovevano, cantando, verso una Luce dai colori indefinibili. Ed era tutto pace. Madre santa, aspettami.
Cinzia dice
27 Agosto 2017 alle 15:39Madri che allevano per il Cielo ….
Speriamo ne nascano ancora, e cosi’ sappiano anche far rinascere…sull’esempio di Monica
francesco dice
27 Agosto 2017 alle 16:38Grazie infinite del dono prezioso; anche nella storia di Monica e di tante sante madri nascoste Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni (io per te), non vuole definizioni ma coinvolgimenti autentici: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? Quanto conto per te? Che importanza ho nella tua vita? Il Signore non ha bisogno della nostra risposta per avere informazioni o conferme, per sapere se sei più bravo/a degli altri, ma per vedere se sei innamorato/a di Lui, se gli hai davvero aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi, il Signore non è le mie parole, ma ciò che di Lui arde in te ed in me, nella nostra vita concreta, com’è stato per s.Monica e s.Agostino. Un abbraccio francesco e Gabriella
Cesare dice
29 Agosto 2017 alle 14:27È il “genio femminile” che si incarna nella storia, in ogni storia, di madri e figli, di donne e uomini. Tutti si partorisce, prima di tutto e certamente con la mente e con il cuore, a somiglianza di Dio che è Padre e Madre allo stesso tempo. Grazie a voi che sietè “padri” che generano e siete “madri” che partoriscono. Secondo il Talmud “Dio conta le lacrime delle donne”. Come non conterà in particolare quelle delle madri?
Giuseppe Albano dice
27 Agosto 2021 alle 17:58Mi permetto di fare una correzione. Nell’articolo si omette l’attributo “buone” accanto al sostantivo “donne”. Ci sono, cioè, donne di una malvagità inaudita, come quelle dei campi di concentramento evocati, ma dalla parte nazista, o le compagne dei mafiosi, o quelle che io stesso ho visto malmenare selvaggiamente in gruppo altre donne, comprese suore. In sostanza, non si tratta di essere femminili o virili per comprendere le donne madri, le donne eroine di tutti i giorni, le loro sane battaglie quotidiane; basta essere persone buone.