Non siamo affatto esperte di viticoltura, e tuttavia ogni anno si ripete il rito: la vite di uva fragola offre con abbondanza i suoi grappoli, viene il tempo di raccoglierli. Una mini-vendemmia, in realtà, e tuttavia, ogni volta questo appuntamento ci trasmette qualcosa.
C’è una fatica nel piantare, e richiede decisamente fede: che ne sarà di questo mio sudore? Sarà ripagato da frutti corrispondenti, o avrò lavorato invano? Chi vedrà i grappoli di queste viti che io sto piantando? Arriverò ad assaggiarne almeno qualche chicco?
Domande che scaturiscono dal rischio della fede, la quale non si trova a livello di questioni sui massimi sistemi, ma ama fare capolino dalle piccole cose della vita.
C’è poi la fatica connessa al raccogliere. Ci vuole tanta delicatezza, altrimenti si sciupano sia i grappoli che i tralci.
Una vite piantata non sappiamo da chi: non ha la nostra paternità, non possiede il timbro delle nostre conquiste o dei nostri personali gusti, eppure ci chiede umilmente considerazione. Ciò che altri hanno ritenuto bello, importante, significativo, può essere adottato oggi da me, attraverso una scelta consapevole, che, se da un lato mi obbliga a modificare la mia tabella di marcia, dall’altro allarga il mio sentire, dilata il mio mondo. Anche questa è una forma di fede.
Quel nostro raccolto ci fa idealmente pensare a tutto questo, e intanto cominciamo a domandarci: l’uva è molta, come potremo consumarla tutta? Si fa strada una possibilità: trasformarla in marmellata e farla gustare anche ad altri.
Quanta generatività in quel primo gesto…
Foto: Foresteria del Monastero: grappoli di uva fragola pendenti dai tralci, abbarbicati ad una pianta di fico. Quando si dice l’aiuto reciproco…